Percorso Sorgenti petrificanti
Inquadramento territoriale
Legenda:
ROSSO: Percorso Prati Magri
ARANCIO: Percorso Erbe officinali
VERDE: Percorso Stazione
VIOLA: Percorso Sorgenti petrificanti
Cartina del percorso
Audioguida
sorgenti.zip (9,5MB): pacchetto completo con un file MP3 per ogni punto del percorso.
Guida al percorso
PUNTO 1
Il percorso che ci condurrà alla scoperta delle affascinanti sorgenti petrificanti, della lunghezza di circa due chilometri e mezzo, è percorribile in un’ora e mezzo di cammino; è consigliato l’uso di scarponcini da trekking. L’itinerario parte dalla Valle del Curone a circa 290 metri s.l.m. ed arriva ad un massimo di 330 metri s.l.m. sul versante settentrionale della collina di Montevecchia.
Il Parco di Montevecchia e della Valle del Curone è stato istituito dalla Regione Lombardia nel 1983, ha un’estensione di 2300 ettari e comprende dieci comuni. Nato per tutelare i valori naturalistici e paesaggistici di un territorio della Brianza molto urbanizzata, il Parco presenta, oltre a zone di grande interesse ambientale e naturalistico, aspetti culturali di elevato pregio, legati alla storia dell’uomo.
Partiamo dal parcheggio di Ca’ del Soldato, nella Valle del Curone, dove torneremo alla fine del percorso. La cascina “Ca’ del Soldato” è adibita a centro Parco e dispone di un piccolo museo, aperto la domenica, nel quale vengono proposti i diversi ambienti che caratterizzano il territorio e la fauna presente.
Attraversando la strada asfaltata ci portiamo sulla strada sterrata che conduce al centro Parco: ai suoi lati cogliamo la presenza di alberi ed arbusti che allungando i loro rami costituiscono una volta sopra le nostre teste. Se la giornata è calda e afosa possiamo assaporare la frescura delle fronde.
PUNTO 2
“Lascia che la pace della natura entri in te come i raggi del sole penetrano le fronde degli alberi. Lascia che i venti ti soffino dentro la loro freschezza e che i temporali ti carichino della loro energia, allora le tue preoccupazioni cadranno come foglie in autunno.” Queste emozionanti parole del naturalista John Muir ci invogliano a scoprire la natura con tutti i nostri sensi, per cercare di comprendere tutto ciò che ha da comunicarci.
Ascoltiamo i suoni che ci circondano: percepiamo, vicino a noi, dell’acqua ricca di movimento e di vita: è il torrente Curone. Questo corso d’acqua presenta le sue suggestive sorgenti nella valle del Curone, situata nella zona settentrionale del Parco, all’interno della Riserva Naturale Valle Santa Croce e alta Val Curone. Qui il territorio è caratterizzato da una morfologia aspra con rilievi collinari e valli dai versanti ripidi ed è ricoperto da estese superfici boscate.
Il torrente Curone percorre da nord a sud tutto il territorio del Parco e termina il suo viaggio confluendo nelle acque del torrente Molgoretta, altro importante corso d’acqua che nasce nella Valle Santa Croce. Lo scorrere apparentemente immutabile di questi torrenti contribuisce al modellamento e all’evoluzione continua di questo territorio.
Rispetto alla nostra posizione, il torrente Curone scorre da destra verso sinistra passando sotto i nostri piedi: ci troviamo sul ponte che lo attraversa; poco a valle riceve un piccolo affluente e curva verso sinistra, confermando il suo andamento meandriforme. Il tratto iniziale del torrente Curone è caratterizzato da grande naturalità e da un’ottima qualità dell’acqua; le scarse portate idriche, nei periodi di magra, sono però un fattore limitante per le comunità biologiche acquatiche. In questo punto l’alveo del torrente ha una larghezza media di due metri ed è caratterizzato da fondo di ghiaie e sabbie grossolane; la pendenza è modesta, le sponde sono argillose e l’acqua è limpida e molto fresca. La comunità ittica in questo tratto è ben rappresentata da diverse specie come il Ghiozzo, il Vairone, la Trota fario, il Cobite e la Lampreda.
L’ambiente naturale intorno al torrente presenta un grande fascino per la vegetazione che cresce lungo le sponde: le imponenti e bitorzolute radici degli alberi si tuffano nel torrente alla ricerca della loro linfa vitale e le verdi chiome fanno ombra sullo scorrere turbinoso dell’acqua e ospitano colorati uccelli e simpatici mammiferi.
Ora lasciamo il suggestivo torrente Curone per scoprire un altro ambiente molto interessante: lo stagno. Proseguiamo, verso ovest, sulla strada sterrata, che esce dal bosco, superando la sbarra che permette il passaggio dei pedoni e delle biciclette. Ci accorgiamo che sotto i nostri piedi ci sono dei sassi che scricchiolano al nostro passaggio. Sulla destra della strada scorre il torrente Curone nella direzione opposta al nostro cammino; la vegetazione in parte lo nasconde ma il nostro orecchio attento percepisce ancora il gorgoglio dell’acqua.
La fascia di arbusti che fiancheggia il torrente e lambisce la nostra strada è costituita per lo più da noccioli. Ai loro piedi si possono trovare gusci di nocciole spaccati in modo caratteristico, utili tracce per il riconoscimento dello Scoiattolo rosso. Questo grazioso roditore vive in questi boschi arrampicandosi rapidamente su tronchi e rami e saltando agilmente da albero ad albero. Lo scoiattolo è molto ghiotto di nocciole e le apre servendosi dei suoi robusti denti a scalpello, spaccandone il guscio in due metà. Diversamente le nocciole aperte dal Moscardino, altro abitante di questi boschi, si distinguono per il foro molto netto e per il margine interno molto liscio.
Alla nostra sinistra si apre una verde distesa: in primavera e in estate i lunghi fili d’erba si intrecciano ai profumati fiori, mentre nelle fredde mattine invernali il verde viene camuffato dalla brina che ricopre tutto come una coperta bianca e le ragnatele appaiono come particolari ricami.
PUNTO 3
Siamo giunti allo stagno le cui acque statiche non emettono tracce uditive della loro presenza. Se siamo in tarda primavera o in estate, però, uno spettacolo allietante per le nostre orecchie ci guida verso questo ambiente: sono i maschi delle rane che in coro ci deliziano di un concerto insolito ed unico. Le informazioni sullo stagno, riportate nel pannello didattico presente, ci invogliano a diventare esploratori a “caccia” di tesori.
Lo stagno è un luogo affascinante, un microcosmo fecondo di vita. Nelle sue basse acque è facile vedere le più svariate forme animali spostarsi sul fondo o nuotare in superficie. I tritoni si spostano con eleganti movimenti della coda, la notonetta scivola “a dorso” sulla superficie dello stagno e i gerridi pattinano sul pelo dell’acqua. Lo stagno rappresenta un “nido d’infanzia” per molte larve di libellule ed anfibi che da adulti sceglieranno l’aria o la terra per vivere, ma che torneranno in queste calme acque per riprodursi.
Nello stagno vi sono piante acquatiche con foglie completamente sommerse che si protendono in lunghi filamenti simili a verdi capelli mentre altre hanno foglie galleggianti sulla superficie dell’acqua, espanse a forma di disco per “catturare” il sole. Alcuni vegetali si muovono nell’acqua con la grazia di ballerini mentre altri sono rigidi come statue.
Percorriamo per una quindicina di metri la passerella di legno larga circa un metro; sulla destra, a circa un metro di altezza, troviamo un corrimano di legno grezzo. Arriviamo allo stagno che ha una superficie totale di 400 mq e la forma ad elle. La passerella costeggia lo specchio d’acqua per una ventina di metri, lasciandolo sulla destra; arriviamo ad una staccionata: in questo momento la superficie dello stagno si estende davanti a noi, alla nostra destra e alla nostra sinistra. Siamo giunti al punto n. 4.
PUNTO 4
Lo stagno muta il suo volto a seconda delle stagioni.
Quando arriva la primavera i giorni si allungano e la temperatura aumenta: si assiste ad un’esplosione di vita. Per le piante è l’inizio della competizione annuale per raggiungere un posto al sole. Le minuscole alghe, le lenticchie d’acqua ed altre piccole piante sono le prime a farsi notare; attorno allo stagno anche gli iris gialli e le canne mostrano le nuove foglie e i teneri germogli. I salici bianchi, dalle foglie argentee, salutano la primavera con una elegante esibizione di amenti pelosi: sono i loro fiori. Le prime api visitano gli amenti in cerca di nettare e polline. Il vento trasporta il polline dai dorati amenti maschili alle verdastre infiorescenze femminili, portate da alberi diversi. Gli amenti femminili maturando producono semi piumosi che sono dispersi dal vento.
Con il sole primaverile che riscalda l’acqua, gli animali lasciano i loro ricoveri in mezzo alle erbe tornando a far brulicare lo stagno. Gli anfibi si corteggiano, si accoppiano e depongono grandi nuvole gelatinose di uova. Rapidamente lo stagno inizia a ribollire di chiocciole, insetti, anfibi e altri moltissimi animali appena nati.
Con l’arrivo dell’estate la vegetazione si prepara al suo trionfo, fornendo cibo, riparo e luoghi per la riproduzione e la nidificazione. Se ci addentriamo nello stagno in estate facilmente il nostro viso sarà solleticato dalla tifa o mazzasorda, pianta alta quanto una persona con fusto carnoso e foglie lunghe e nastriformi. L’infiorescenza è molto appariscente ed è composta da due diverse parti; in alto si trovano centinaia di fiori maschili che producono il polline dorato e in basso migliaia di fiori femminili riuniti in una struttura a forma di sigaro di color marrone, morbidissima al tatto. Se toccare l’infiorescenza della tifa trasmette una sensazione davvero piacevole, non si può dire la medesima cosa del carice, pianta con foglie lunghe, lanceolate e molto taglienti. Nell’aria si sente la piacevole fragranza della filipendula che ha due profumi distinti: quello più delicato dei fiori e quello penetrante emanato dalle foglie schiacciate. Nel medioevo l’infuso di filipendula era usato per alleviare vari dolori. Troviamo anche la menta acquatica, usata nell’antichità come “sale odoroso”. Una pianta molto antica è l’equiseto che ama luoghi umidi e ombrosi: è facilmente riconoscibile per la struttura verticillata di rami e foglie. L’equiseto ha le pareti fortemente silicizzate e l’ingestione di questa pianta da parte di animali erbivori può arrecare piccole lesioni al tubo digerente.
In estate la catena alimentare dello stagno si articola: gli sciami di giovani girini, di larve di insetti e di chiocciole d’acqua si cibano della vegetazione, venendo, a loro volta decimati, da voraci predatori acquatici come larve di coleotteri, ninfe di libellula e tritoni. Questi crescono e divengono a loro volta preda di carnivori più grandi.
Molti giovani nati dalle uova dell’anno si preparano alla grande partenza verso nuove destinazioni: i girini si sono trasformati in miniadulti in grado di respirare l’ossigeno atmosferico e sono pronti a fare i primi salti sulla terra. Dallo stagno partono anche le larve di molti insetti acquatici che si trasformano in adulti: le tipule, le mosche, le zanzare e le imponenti libellule predatrici.
Quando arriva l’autunno la vita dello stagno rallenta il ritmo, preparandosi ad affrontare l’inverno. Uno degli indicatori stagionali, l’iris giallo, è ormai ridotto ad un brunastro e sbrindellato relitto della gloriosa pianta gialla e verde. Nello stagno cadono foglie, ramoscelli ed altri detriti organici che si depositano sul fondo in strati simili a brune coperte che isolano e proteggono le piccole creature e le gemme delle piante acquatiche durante i rigidi mesi invernali. Altri abitanti dello stagno depongono le uova in autunno e poi gli adulti muoiono, ma la nuova vita è appena dietro l’angolo perché le uova si schiuderanno la primavera successiva. Le rane invece passano l’inverno in letargo, nascoste nell’asciutto terreno.
In inverno, verso la fine di gennaio, le tife dello stagno vengono tagliate così che l’ambiente si presenta nudo e disadorno. Uno spettacolo “molto invernale” ci accompagna in questo periodo: una lastra di ghiaccio ricopre come un tappeto caldo lo stagno. Il ghiaccio è un buon isolante e perciò, mentre la temperatura esterna può scendere sotto lo zero, sotto di esso si mantiene sopportabile per gli “addormentati” abitanti che aspettano di ritornare alla frenetica vita primaverile.
Proseguiamo sulla passerella a sinistra e poi giriamo a destra: arriviamo su un ponticello che divide lo stagno in due parti: siamo circondati dall’acqua. Al termine del ponte svoltiamo a destra facendo attenzione alle fronde dei salici bianchi che invadono il nostro percorso. Costeggiamo il perimetro esterno dello stagno, che è sempre sulla nostra destra, fino ad arrivare a tre gradini, un po’ scivolosi perché modellati nel terreno argilloso, che ci riportano sulla strada sterrata. Attraversandola, ci addentriamo nel bosco dove troviamo il punto n. 5.
PUNTO 5
Siamo nel bosco, sotto un tetto di rami. Il sole filtra debolmente attraverso il fitto strato di foglie, dipinge sprazzi di luce sui tronchi degli alberi e solo qua e là raggiunge il terreno. L’aria profuma di aromi diversi: un po’ di resina, un po’ di funghi, un po’ di legno ammuffito. Sotto i nostri passi fruscia il fogliame, scricchiolano i rami. Da qualche parte un uccello prova la sua canzone, tutto il resto tace. Ci fermiamo; nel silenzio profondo sentiamo l’odore della terra bagnata di una piccola pozza d’acqua piovana attorno alla quale sfoggiano la loro chioma pennata alcune felci.
Nel bosco gli esseri viventi vegetali ed animali (elementi biotici), l’ambiente e le condizioni fisico-chimiche (elementi abiotici) sono inseparabilmente legati tra loro da stretti rapporti di interdipendenza, sviluppando interazioni reciproche. Il bosco offre l’occasione per osservare da vicino e capire le relazioni esistenti tra i fattori fisici e biologici degli ecosistemi: se uno di questi viene alterato anche gli altri ne subiscono le conseguenze.
Il bosco è un mondo fatto a strati: immaginiamolo suddiviso in piani, ciascuno con peculiari caratteristiche. Partendo dal basso troviamo il suolo che è la base del bosco, in cui gli alberi sono radicati e al quale essi riportano foglie, rami, semi, frutti caduti e, infine, il loro stesso corpo quando muoiono e si decompongono. Sopra troviamo il terriccio composto di foglie morte e in decomposizione, detriti vegetali, funghi e lo stuolo dei piccoli invertebrati suoi abitatori. Lo strato erbaceo è disteso come un tappeto di fiori ed erbe, di felci, di muschi e di molte altre piante a bassa crescita; è rifugio di una moltitudine di animali, specialmente insetti ed invertebrati. Salendo troviamo lo strato arbustivo formato da cespugli, arbusti, piccole piante legnose e giovani alberelli. Lo strato arboreo è il livello più alto del bosco, formato dalla massa dei rami, rametti, foglie e frutti degli alberi intrecciati tra loro, oltre alla ricca presenza di animali.
I bambini che vivono nel Parco, con l’aiuto degli gnomi di questo bosco, hanno realizzato dei cartelli in legno che ci insegnano il nome italiano e scientifico degli alberi, il luogo di origine e la forma della foglia. I cartelli sono posti vicino agli alberi “a portata” di bambino, ad un’altezza di circa 60 cm da terra.
Sulla nostra sinistra scopriamo la presenza di un albero molto interessante: l’ontano nero. Questo albero ha la corteccia ruvida e fessurata, di color grigio-brunastro con parecchie lenticelle. Il tronco è eretto con ramificazioni regolari e la chioma ha forma conica di colore verde cupo. Le foglie sono alterne, arrotondate e smarginate all’apice. I fiori femminili e maschili sono amenti che crescono sullo stesso albero e sbocciano in primavera. I frutti sono legnosi e assomigliano a coni; quando sono maturi rimangono sulla pianta per tutto l’inverno. L’ontano ha radici che contengono batteri in grado di utilizzare l’azoto dell’aria e di fissarlo, migliorando così la carenza di azoto che di solito si riscontra nei terreni molto umidi. Il legno dell’ontano nero è durevole in inverno. Essendo di facile lavorazione, era ricercato dagli zoccolai e ancora oggi è utilizzato per la fabbricazione di zoccoli e manici di scopa. Dalla corteccia, dai frutti e dalle foglie si ottengono tinture. Secondo un’antica tradizione, nell’ontano viveva il male; l’albero era temuto perché il suo legno, se tagliato, si tinge di arancio sanguigno, quasi stesse sanguinando. Ciò diede vita alla superstizione secondo cui l’albero era la personificazione di uno spirito maligno.
Addentrandoci nel bosco, a dieci passi dall’ontano nero, troviamo il biancospino. Il biancospino selvatico è un alberello o arbusto con foglie alterne, con lobi profondamente divisi e dentellatura tutt’intorno. La pagina superiore è di colore verde intenso mentre quella inferiore è più chiara. Il tronco è sinuoso e scanalato con rami scuri, caratterizzati da spine non molto abbondanti; la corteccia è di colore arancio-brunastro con piccole squame. I fiori sono riuniti in infiorescenze bianche ed odorose e i frutti sono bacche rosse rotonde, chiamate “pomi”. Fiori, frutti e corteccia hanno proprietà sedative e cardiotoniche; i fiori in bocciolo possono essere conservati sott’olio come capperi; i frutti hanno virtù astringenti e inoltre forniscono cibo invernale agli uccelli del bosco, come tordi e cesene. Il biancospino è noto fin dai tempi dei Greci, i quali si servivano dei rami fioriti per adornare gli altari durante le cerimonie nuziali.
Nel nostro viaggio alla scoperta del bosco seguiremo delle tracce particolari: simpatici gnomi del bosco che ci indicheranno la strada da percorrere. In questo momento siamo proprio sul sentiero degli gnomi…tra il verde delle foglie e il grigio delle cortecce si scorge un cappuccio rosso a punta, una candida barba bianca e una mano che ci mostra la direzione da seguire…adesso siamo pronti per partire. Seguiamo le indicazioni dello gnomo imboccando il sentiero a sinistra: è un tracciato largo circa due metri, caratterizzato da terreno argilloso ed è in leggera salita. Sono quindi necessari degli scarponcini da trekking.
PUNTO 6
Il bosco in cui ci troviamo è un bosco misto “di latifoglie”; l’aspetto di un bosco “deciduo” cambia secondo le stagioni: in primavera e in estate gli alberi sono rivestiti di larghe foglie in tutte le tonalità di verde, mentre al giungere dell’autunno il bosco mostra una spettacolare gamma cromatica di ruggine, castano, oro e rosso mentre le foglie cadono e muoiono, ricoprendo il suolo di un tappeto policromo. In inverno gli alberi rivelano la vera forma dello scheletro legnoso.
Il re del bosco è l’albero: le sue forme e dimensioni determinano quale vita sarà protetta sotto o tra i suoi rami. Per un gran numero di animali un singolo albero è non solo un rifugio ma anche una riserva di cibo: l’albero inizia le catene alimentari con le sue foglie, sia vive che morte, con i suoi fiori, frutti e semi; così per gran parte della flora gli alberi offrono le condizioni migliori per lo sviluppo: suolo fertile, ombra e nutrimento. Le caratteristiche del bosco sono il risultato degli attributi di ogni singolo albero. Il modo in cui crescono le sue radici, affondando profondamente nel terreno o diffondendosi sopra la superficie come una rete; il modo in cui si sviluppa la chioma verso l’alto, appuntita o espansa in una verde volta; il tipo di corteccia, da quella liscia come la seta, a quella ruvida come la carta smerigliata o a quella con protuberanze come la pelle del rinoceronte.
I boschi ricoprono la maggior parte del territorio del Parco, caratterizzandone la fisionomia e rappresentando molte delle sue peculiarità. I boschi rispecchiano le caratteristiche del luogo su cui sorgono: zone differenti dal punto di vista pedologico, cioè del suolo, o dell’esposizione, presentano boschi differenti.
Nelle zone più alte ed assolate troviamo boschi formati da specie termofile, cioè amanti delle zone calde. Qui rovere e roverella formano boschi quasi puri, in associazione con carpino nero e orniello.
Scendendo verso valle si trovano boschi con caratteristiche più mesofile. Associati alla farnia, si trovano il carpino bianco e il ciliegio selvatico. Nella zona settentrionale si osservano estesi castagneti. Nei versanti più assolati il castagno si alterna alla rovere. Nelle zone più umide, per esempio lungo il corso del torrente Curone, accanto al carpino bianco si trovano l’ontano nero, l’olmo e, più sporadico, il pioppo bianco. Un’altra pianta presente in questi boschi igrofili, cioè amanti di zone umide, è il platano. Inoltrandosi nella Valle del Curone, in prossimità delle sue sorgenti, in un’area caratterizzata da un microclima fresco e molto umido, si trova anche il faggio.
Nelle zone pianeggianti meridionali e nei boschi più degradati della collina domina incontrastata la robinia.
Sulla nostra sinistra ecco un maestoso castagno. Il castagno è un albero alto, a chioma ampia con molti rami snelli di colore verde vivo; le foglie sono lanceolate, lunghe fino a 20-25 cm, con base cuoriforme arrotondata. Il margine è dentato come una sega e le nervature sono parallele; il colore è verde lucido. Il tronco è massiccio, grosso e la corteccia è di color bruno-grigiastro scuro e si divide in lunghe nervature a spirale. Il frutto è un achenio, la castagna, con buccia bruno scura, racchiuso a gruppi di 2-4 in un involucro spinoso, il riccio, che si apre a maturità in 4 valve. Le castagne, ricche di amido e di zuccheri, sono nutrienti e digeribili e hanno costituito, fino ad alcuni decenni fa, l’alimento base invernale delle popolazioni rurali in zone collinari e montane. Vengono utilizzate fresche, secche e ridotte in farina. Il castagno, originario dell’Europa orientale e dell’Asia minore, può essere ormai considerato pianta indigena in Italia. E’ infatti coltivato da tempo immemorabile come pianta agraria forestale. I Romani lo diffusero sulle Alpi e sull’Appennino settentrionale e poi negli altri paesi europei.
Spostandoci dal castagno di qualche metro, troviamo sulla nostra destra la robinia. La robinia è un albero dalla chioma aperta ed espansa di colore verde smorto. Le foglie sono alterne, ognuna ha 11-15 foglioline picciolate, ovali e glabre; la pagina superiore è lucida di colore verde-bluastro, mentre quella inferiore è verde-grigiastra. Il tronco è eretto, molto ramificato con rami sinuosi e rametti contorti fortemente spinosi; la corteccia è grigio-bruna, grossolanamente solcata e nodosa, a formare come una rete a maglie molto allungate. Il frutto è un legume appiattito di colore bruno-rossiccio contenente i numerosi semi neri; in autunno i legumi lisci e bruni si fendono per liberare i semi reniformi. I legumi pendono dall’albero in racemi per tutto l’inverno. I fiori sono riuniti in dense infiorescenze pendule di colore bianco, con odore e sapore dolciastri. I fiori bianchi sono appetiti dalle api, che producono un miele monofloro, chiaro e fluido, molto apprezzato. Nelle campagne si fa anche un tradizionale uso culinario di questi fiori: quando non sono ancora completamente sbocciati vengono preparati in frittata o in frittelle; i fiori hanno anche un’azione medicinale calmante. Il legno è duro, elastico e resistente all’umidità. La robinia è una pianta di origine nordamericana introdotta in Italia nel 1800. E’ una specie molto frugale, che si adatta a qualsiasi tipo di terreno. Purtroppo è un albero assai invadente, che spesso tende, dove viene introdotto, a espandere la propria presenza a scapito delle specie spontanee.
Proseguiamo sul sentiero per circa trenta metri fino a trovare il punto 7.
PUNTO 7
Sulla nostra sinistra svetta la rovere, quercia assai tipica del paesaggio italiano e senz’altro uno degli alberi più maestosi della nostra flora. Alta fino a 40 m, presenta una chioma a ventaglio, molto ampia, di color verde scuro. Le foglie sono oblunghe, portate da lunghi piccioli gialli, con base affusolata senza orecchiette e con 5-7 lobi per lato, arrotondati e poco profondi; la pagina superiore è di colore verde scuro e lucida, più chiara e con fine peluria quella inferiore. Il tronco è diritto, robusto, con rami che si dipartono a livelli differenti; la corteccia è grigio-bruna pallida, finemente fessurata e scanalata. I fiori maschili sono degli amenti giallastri penduli mentre quelli femminili sono piccoli, sferici, di colore bianco-verdastro e sessili, portati all’ascella delle foglie. I frutti sono ghiande arrotondate, tozze e sessili. Il legno della rovere, pesante e durevole, è fra i più pregiati e viene utilizzato per ogni sorta di lavoro. La corteccia delle querce era fonte di tannino, sostanza usata per la concia delle pelli, finché l’uomo non trovò altre sostanze chimiche.
A circa quindici metri dalla rovere, sulla destra troviamo il pioppo tremolo. Questo è un albero dalla chioma ovale, irregolare, rada, di colore verde chiaro-verde grigiastro. Le foglie sono piccole e rotonde, con margini ondulati e picciolo compresso e più lungo della lamina; la pagina superiore è di colore verde-grigiastro, quella inferiore è più chiara. Il tronco è eretto, talvolta sinuoso, con corteccia di colore grigio-verdastro e liscia in alto, grigio scura e ruvida in basso. I fiori sono riuniti in infiorescenze chiamate amenti; gli amenti femminili, verdi, e maschili, bruni, sono portati da alberi separati, in marzo. Gli amenti femminili spargono i bianchi semi lanosi in maggio. Il pioppo è facilmente riconoscibile in estate per le foglie tremule. La gente di campagna riteneva, in passato, che l’incessante tremolio delle foglie di quest’albero indicasse un dolore o rimorso; taluni sostenevano che questo senso di colpa scaturiva dal fatto di avere fornito il legno usato per la croce su cui morì Gesù. Probabilmente è dall’osservazione di questa pianta che nasce il detto popolare “ tremare come una foglia”.
Avanziamo di circa dieci metri e scopriamo la farnia sulla nostra sinistra. La farnia è una quercia alta fino a 35 m, con chioma massiccia, molto ampia, di colore verde scuro e con rami molto robusti. Le foglie sono alterne e subsessili con picciolo cortissimo; la lamina presenta apice arrotondato, con due orecchiette alla base e divisa in 4-6 lobi arrotondati su ciascun lato. La pagina superiore è di colore verde scuro, quella inferiore ha riflesso bluastro. Il tronco è diritto, robusto e la corteccia è grigio-brunastra, pallida e fessurata in piccole placche con l’età. I fiori maschili sono gialli e penduli amenti mentre quelli femminili si trovano all’estremità dei germogli. I frutti sono ghiande sessili ovali, in gruppi di 2-3 su un lungo peduncolo comune, con cupole che le ricoprono per circa un quarto. La farnia è un albero molto longevo, che può assumere forme imponenti per la potenza delle sue ramificazioni. La farnia è diffusa in Italia soprattutto nelle regioni settentrionali; preferisce terreni fertili e profondi, anche assai umidi, purché privi di ristagno idrico.
Spostandoci dalla farnia di circa quindici metri troviamo il punto 8.
PUNTO 8
Sulla sinistra ci appare il carpino bianco. Questo è un albero con chioma arrotondata ed espansa, di colore verde lucente. Le foglie sono appuntite con margini doppiamente dentellati e l’inserzione è alterna su piccioli rossastri; hanno 10-15 paia di nervature parallele. Il tronco è diritto e scanalato con rami ascendenti, la corteccia è grigio-brunastra liscia, ma con strisce più chiare che formano un disegno a rete. I fiori maschili sono disposti in amenti penduli lunghi fino a 5 cm. I fiori femminili sono raggruppati in amenti più corti. I frutti sono riuniti in infruttiscenze giallo-verdastre, poi brunastre, pendule. Il legno è resistentissimo e veniva usato per ceppi da macellaio, mazzuoli e bocce. Quando ancora non era disponibile l’acciaio a costo accessibile, si usava per farne raggi di ruote e ingranaggi.
Camminiamo per dieci metri circa e scopriamo sulla sinistra il nocciolo, un alberello spesso arbustivo con chioma espansa di colore verde vivo. Le foglie del nocciolo hanno lamina da ellittica a rotondeggiante di colore verde chiaro opaco, con base cuoriforme e apice appuntito; il margine ha una doppia dentellatura e l’inserzione è alterna. Il tronco è eretto, ramificato fin dalla base, con corteccia grigio-brunastra lucida con lenticelle trasversali e solo tardivamente con lunghi solchi longitudinali. I fiori maschili sono riuniti in amenti penduli lunghi 6-10 cm, di colore dapprima rosato, poi giallo che si formano già in autunno; i fiori femminili sono simili a piccole gemme. I frutti sono le nocciole, generalmente unite in ciuffi di 2-5, avvolte quasi completamente da due brattee fogliari sfrangiate. Le nocciole sono il nutrimento per molti piccoli roditori del bosco, tra cui lo Scoiattolo rosso che ne apre il guscio spaccandolo a metà. I frutti sono utilizzati per la produzione di nocciolati, torroni e della pasta gianduia, un sostitutivo della cioccolata. Questa pasta venne creata all’inizio del secolo XIX quando, in seguito al blocco dell’importazione delle spezie voluta da Napoleone, si verificò una penuria di cacao. I flessibili rami di questa pianta sono stati intrecciati fin dai tempi preistorici, per formare manufatti utili all’uomo.
Qualche metro più avanti, sulla destra, spicca un imponente platano. E’ un albero alto fino a 35 m che può raggiungere i 500 anni di età. Ha la chioma a cupola, allungata, di colore verde opaco; le foglie sono ampie, palmato-lobate, con lamina larga fino a 25 cm, divise in 3 o 5 lobi larghi e con margine dentato. Il tronco è eretto, massiccio, con grossi rami contorti; la corteccia è brunastra, ruvida che si stacca in grosse placche lasciando scoperta la nuova scorza di colore grigio chiaro, giallo e verde. I fiori sono riuniti in capolini rotondi e piccoli, i maschili giallastri ascellari, i femminili rossastri con lungo peduncolo, portati separati sulla stessa pianta. Le infruttescenze sono sferiche, brunastre e in gruppi di 2-4 sullo stesso peduncolo e rimangono sospesi sull’albero durante l’inverno. Le radici di questo platano, massiccie e forti, invadono il sentiero: le percepiamo sotto i nostri piedi.
Proseguiamo sul sentiero per circa una trentina di metri fino ad arrivare sulla strada sterrata; giriamo a sinistra e dopo quindici metri circa troviamo il punto 9.
PUNTO 9
Sulla sinistra scopriamo il sambuco, pianta arbustiva a midollo bianco, con chioma globosa, espansa, di colore verde vivo; le foglie imparipennate sono formate da 5-7 foglioline lanceolate con apice acuminato e margine seghettato; la pagina superiore è di colore verde scuro, quella inferiore più chiara e l’inserzione è opposta. Il tronco è eretto, sinuoso, spesso biforcato, ramificato fin dal basso, con corteccia brunastra-rossiccia, profondamente fessurata e solcata. I numerosi fiori bianco-crema formano un corimbo appiattito dal profumo dolce e delicato; i frutti sono bacche portate in infruttescenze pendule, succose, nero-violacee, lucide e portate su peduncoli rossastri. Dai frutti e dai fiori si ottengono distillati e marmellate eccellenti, ricche di vitamina C. Tinture vengono ricavate da parti diverse dell’albero: nere dalla corteccia, verdi dalle foglie, blu o lilla dai fiori che vengono anche consumati in frittate e frittelle. Il midollo del fusto si taglia facilmente, tenero e bianco-giallastro, può essere usato per piccoli oggetti, quali giocattoli, pettini, cucchiai di legno. I fusti di questa pianta, se svuotati, possono fungere da fischietti e cerbottane.
Di fronte al sambuco, dall’altra parte della strada, si trova l’acero di monte, il più alto acero europeo, dato che può raggiungere i 35 metri. Questo albero ha una forma massiccia e a cupola, con fitto fogliame e rami inferiori pesanti; la sua chioma produce una fitta ombra. Il tronco è eretto e sinuoso e la corteccia è grigia, solcata longitudinalmente e spesso prende un colore bruno-rosato. Le foglie sono opposte e a 5 lobi; la pagina superiore è lucida e verde scuro, quella inferiore è più chiara e pubescente. I fiori giallo-verdastri compaiono insieme alle foglie; i frutti hanno ali opposte, divergenti a 180 gradi e sono dapprima rossastri poi giallo-brunastri. Il legno dell’acero di monte è molto apprezzato perché è facile da lavorare e non si deforma; è usato nell’industria dei mobili e per gli strumenti musicali. Intaccando il tronco ne esce la linfa, un tempo, ritenuta curativa per lo scorbuto e utilizzata, dopo la fermentazione, per la produzione di una bevanda alcolica.
Facciamo marcia indietro e torniamo sui nostri passi fino ad incontrare, dopo una quindicina di metri, l’acero campestre sulla sinistra, di fronte allo gnomo. L’acero campestre ha una chioma arrotondata, densa, di colore verde intenso; le estremità dei rami tendono prima verso il basso e poi verso l’alto; le foglie sono opposte e piccole, con tre lobi principali dalle estremità arrotondate e due lobi basali più piccoli. In estate sono verde opaco sopra, lanuginose sotto. In autunno la foglia diventa giallo-ambra. Il tronco è eretto con corteccia grigia o marrone, fessurata in placche. I fiori sono riuniti in infiorescenze erette, chiamate corimbi, di colore verdastro-giallo. I frutti hanno ali disposte in linea quasi retta, spesso sfumate di rosa. L’acero campestre era usato tradizionalmente come tutore vivo della vite, quando erano ancora diffusi i filari di vigneto limitanti i campi coltivati con colture erbacee. Il legno di acero è usato per il fondo, le fasce laterali e manici dei violini.
Proseguiamo sulla strada sterrata, sempre seguendo la via principale, senza imboccare le deviazioni che incontriamo; camminiamo per circa un quarto d’ora fino ad arrivare ad una costruzione in cemento, caratteristica per il rumore che produce: si tratta della Centrale dell’acquedotto “la Riunione”, a circa 330 metri s.l.m.. Qui, sulla destra, vi è una bacheca del Parco, illustrante le interessanti Sorgenti petrificanti. Siamo giunti al punto 10.
PUNTO 10
L’habitat delle sorgenti petrificanti è, nel Parco, uno dei tre Siti di Interesse prioritario per la conservazione della natura da parte dell’Unione Europea. Questo habitat è rappresentato da ruscelli, con presenza costante di acqua corrente, in cui avvengono fenomeni di formazione di travertini. I travertini sono rocce porose, formate dalla precipitazione del carbonato di calcio (calcare) di cui sono ricche le acque sorgive, acquisito durante la permanenza nel sottosuolo. Una volta venute a giorno, le acque tendono a depositare parte del calcare su tutto ciò con cui vengono a contatto, rivestendo così con patine via via più spesse le rocce, i sassolini, le foglie, i pezzi di legno e i muschi. Questo fenomeno viene facilitato dalla presenza di cascatelle e di muschi che, con meccanismi fisici e biologici, accelerano la perdita di anidride carbonica da parte delle acque, e, quindi, la precipitazione del calcare. All’habitat è stato dato il nome di una comunità di muschi particolarmente importante per il fenomeno di travertinizzazione. Nelle condizioni più favorevoli si formano ammassi più grossi ed articolati, quali il sistema a vaschette e cascate, costituito da una vasca di ritenzione, la pozza, seguita verso valle da una cascata in accrescimento, quindi da una marmitta ed un accumulo finale. Il fenomeno di formazione dei travertini diminuisce allontanandosi dalla sorgente, conseguentemente alla precipitazione del calcare, fino a scomparire del tutto dopo alcune centinaia di metri. Nel Parco questi habitat si ritrovano nel tratto iniziale dei ruscelli con presenza costante d’acqua, all’interno dei boschi, in tutta l’area delle colline presenti nella parte settentrionale del Parco, soprattutto all’interno della Riserva Naturale Valle Santa Croce-Alta Valle del Curone. Gli studi effettuati indicano che i fattori più importanti per la conservazione dell’equilibrio delle sorgenti petrificanti sono la presenza costante dell’acqua, la loro temperatura e qualità. I principali pericoli sono quindi le modifiche del bacino di alimentazione per cause naturali (frane, smottamenti) o per l’azione dell’uomo (lavori che comportano la movimentazione del terreno), gli inquinamenti, l’improvviso aumento di luminosità nei boschi in cui scorrono i ruscelli, a seguito di tagli eccessivi o schianti. Ma sono ovviamente da evitare anche tutti i comportamenti che potrebbero causare l’alterazione diretta dell’habitat, come il transito di mezzi o persone nell’alveo. All’interno del Parco, con il sostegno dell’Unione Europea, sono in corso alcune azioni per la tutela di questi habitat. Dopo aver aumentato le conoscenze tramite ricerche scientifiche, si sono avviati interventi forestali di consolidamento dei versanti, per rendere più stabili questi ambienti. Per limitare il disturbo causato dal transito sui sentieri, vengono realizzati ponticelli, passerelle, staccionate. Vengono eseguiti lavori di consolidamento dei versanti interessati da fenomeni franosi. Nei pressi delle formazioni più significative vengono allestiti supporti informativi.
I ruscelli che costituiscono l’habitat delle sorgenti petrificanti rappresentano anche l’ambiente preferenziale per il Gambero d’acqua dolce, che qui trova le acque ricche di ossigeno che gli sono necessarie e numerosi nascondigli fra le rocce. Un altro piccolo animale molto frequente in questi ambienti è la Salamandra.
Dal pannello informativo sulle Sorgenti petrificanti si prosegue diritto, imboccando il sentiero nel bosco. Sulla destra è presente una staccionata di legno alta all’incirca un metro. In questo tratto il sentiero è un vero sali e scendi; il terreno è ricco di argilla, quindi in alcuni tratti è un po’ scivoloso. Dopo pochi minuti di cammino, sulla nostra destra troviamo un albero rovesciato, di cui possiamo osservare l’apparato radicale inglobato nell’argilla. Se stiamo in silenzio e lasciamo che i nostri sensi si immergano nella quiete del bosco, sicuramente percepiamo il rumore dell’acqua che ci indica che la sorgente e il ruscello sono vicini. Non è difficile che intorno a noi risuoni una strana risata: è il Picchio verde che vive in questi luoghi. Riprendiamo il cammino: dopo circa 30 metri il sentiero ci conduce al ruscello, di fronte al quale si trova una piccola costruzione in cemento. Attraversiamo il nostro corso d’acqua utilizzando una passerella in cemento e svoltiamo subito a destra, in direzione nord, seguendo il sentierino che costeggia il ruscello. Dopo pochi metri arriviamo alla sorgente e al punto 11. Qui siamo circondati dal travertino che pietrifica tutto ciò che incontra.
PUNTO 11
Vicino ai nostri piedi scorgiamo un rigagnolo d’acqua: lo percorriamo a ritroso e osserviamo che, come per magia, scompare nel sottosuolo…o meglio appare da questo, visto che ci troviamo davanti ad una sorgente. Le sorgenti rappresentano, indipendentemente dalla loro altitudine, l’inizio di un corso d’acqua. Le acque sorgive sgorgano da aperture nel terreno, raccogliendosi solitamente in una bassa pozza rocciosa prima di scorrere via. L’ambiente di sorgente è molto interessante, poiché, essendo alimentato da acque profonde, è largamente indipendente dalle vicende termiche stagionali. Anche la composizione chimica dell’acqua è costante. I muschi rivestono le rocce dentro e intorno alla sorgente, mentre nelle sue vicinanze crescono piante tipiche di zone umide.
Circa i due terzi dell’acqua piovana tornano direttamente all’atmosfera tramite i processi di evaporazione e traspirazione e gran parte del resto costituisce le acque superficiali. Una piccola parte, invece, penetra nel terreno e, se non viene assorbita dalla vegetazione, viene drenata attraverso gli spazi esistenti fra le particelle del suolo, fino a raggiungere uno strato impermeabile di roccia. Qui l’acqua si fa strada attraverso le porosità del terreno o le spaccature nella roccia, seguendo la pendenza dello strato impermeabile. Queste acque vengono dette acque freatiche e il materiale permeabile attraverso il quale esse fluiscono è chiamato falda freatica. Distinguiamo falde superficiali e falde profonde. Quelle superficiali si formano al di sopra del primo strato sotterraneo impermeabile e sono quelle che alimentano sorgenti e fontanili, mentre quelle profonde sono poste a notevole profondità. Passando attraverso gli strati di roccia del sottosuolo, l’acqua viene filtrata e purificata dai minerali che incontra.
Il ruscello, il torrente e il fiume sono importanti agenti di erosione che contribuiscono a modellare il territorio. Nei tratti più alti, quando la pendenza è notevole e la corrente è veloce, l’erosione è la principale attività del corso d’acqua. Esso scava il terreno, creando una tipica valle a V e trasporta a valle grandi quantità di materiali. Quando la pendenza è minore e la corrente rallenta, i materiali trasportati dal fiume si depositano. Col tempo, nelle zone pianeggianti, si formano ampie vallate riempite da sedimenti depositati dal fiume.
Da sinistra giunge un piccolo corso d’acqua che si unisce al ruscello nato dalla nostra sorgente. Qualche metro sopra, un buco nel terreno ci permette di ammirare un piccolo scorcio della falda freatica nella quale scorre l’acqua che alimenta la sorgente. Bisogna fare attenzione perché non vi sono protezioni ma solo alcuni bastoni appoggiati nella fessura.
Dalla piccola sorgente, rivestita da un morbido tappeto di muschio verde brillante, scendiamo prendendo il sentiero che segue la sinistra orografica del torrente principale. Da destra ci arriva, forte e impetuoso, il rumore dell’acqua. Siamo in un ambiente in pieno movimento e allo stesso tempo in un mondo pietrificato. Foglie, rametti, sassolini, muschio e tutto ciò che si trova nel letto del ruscello è avvolto da strati sempre più spessi di pietra, accarezzati dalla corrente che galoppa verso valle.
Camminiamo per qualche metro fino ad incontrare dei gradini che scendono: arriviamo alla passerella di legno, larga circa un metro, sulla quale attraversiamo il torrente; ora il corso d’acqua è sulla nostra sinistra. Qualche metro più a valle, sulla sinistra, ci sorprende un bellissimo affluente del torrente, con affascinanti formazioni di travertino. Siamo giunti al punto 12.
PUNTO 12
La caratteristica fondamentale dei corsi d’acqua è la corrente. L’acqua che scorre ha una temperatura bassa ma uniforme e contiene più ossigeno dell’acqua ferma. In realtà la maggior parte degli organismi fluviali non potrebbe sopravvivere nelle calme e calde acque ferme dello stagno. In un torrente a rapido corso gli organismi fluttuanti nell’acqua rischiano di essere trascinati lungo il letto sassoso. La corrente lava il letto del corso d’acqua, lasciando solo pietre e ciottoli in cui le piante acquatiche, anche se potessero fronteggiare la corrente, troverebbero difficile mettere radici. Le alghe verdi e i muschi si attaccano alle rocce, formando croste o rendendole viscide. Ne deriva che la base della catena alimentare del torrente non è rappresentata dal fitoplancton fluttuante o dalle grandi piante acquatiche, come negli stagni e nei laghi. L’apporto alimentare di base proviene dall’esterno sotto forma di foglie morte, rami di alberi, resti di animali morti e humus dei boschi, trascinato dalle piogge.
Gli animali che vivono nelle acque a rapido corso, sono perfettamente adattati a questo ambiente. Alcuni, grazie alla loro forma appiattita, possono rifugiarsi nelle fenditure. Le ninfe dei Plecotteri e degli Effemerotteri hanno profili fortemente appiattiti. Alcune larve di Tricottero attaccano i loro astucci alle pietre o li appesantiscono con frammenti di ciottoli. Una di esse non ha astuccio, ma sta aggrappata con piccoli uncini aspettando che il cibo venga gettato nella sua rete sericea. Altre larve invece non solo sono dotate di uncini, ma anche di una “corda di sicurezza” di filo sericeo che permette loro di attaccarsi solidamente ad un appoggio. Al momento della metamorfosi, questi strani insetti hanno un singolare metodo di emergere dal corso d’acqua. La pupa prende ossigeno dall’acqua, non solo in quantità sufficiente per respirare, ma anche per fare una bolla d’aria tra il suo corpo e l’astuccio. Quando l’insetto adulto sfarfalla, sale come un piccolo missile argenteo sulla superficie dell’acqua, dove la bolla scoppia e l’insetto con le ali asciutte è pronto per il decollo.
Proseguiamo il nostro percorso camminando sulla passerella di legno, larga circa un metro e poi sul ponticello. Sotto i nostri piedi il torrente va da sinistra verso destra, ricevendo poi un piccolo affluente. Sul ponte la nostra attenzione è stuzzicata dal suono di una cascatella sulla sinistra. Continuiamo sul sentiero per circa 50 metri fino ad arrivare ad un altro ponticello: qui il torrente torna alla nostra sinistra. Il rumore dei salti d’acqua ci avvolge completamente e scorgiamo moltissimi gioielli pietrificati. Il nostro cammino avanza in discesa: è il torrente che ci indica la direzione. Il suo corso è sinuoso, le sue curve sono armoniose e dolci. Ci rendiamo conto dell’interessante azione di scavo e di deposito di materiale effettuata dalla forza dell’acqua. Superiamo la staccionata e scopriamo a sinistra un interessante meandro del torrente.
Al bivio prendiamo il sentiero a sinistra fino ad arrivare al ponticello che attraversa il torrente, che ora è sulla nostra destra. Dopo il ponte incontriamo una piccola sorgente in mezzo al percorso; all’incrocio dei sentieri proseguiamo diritto seguendo il cartello per Cascina Ospedaletto. La strada si allarga ed è fiancheggiata sulla destra da platani, carpini bianchi, noccioli e querce. Dopo le assi di legno adagiate sul sentiero, che servono al transito dei trattori, ci addentriamo a destra nel bosco. In questo punto il torrente che abbiamo seguito e di cui abbiamo conosciuto ed apprezzato le bellezze, si unisce al Torrente Curone, che proviene dall’Alta Val Curone, “donandogli” il suo carico di vita.
Torniamo quindi sul sentiero che costeggia il Torrente Curone e ne risale la corrente. Oltre la sponda opposta scorgiamo un prato; nell’alveo del torrente emergono delle rocce sedimentarie, circondate da profondi meandri.
Arrivati al bivio giriamo a destra verso Cascina Ospedaletto, attraversando il torrente su un ponte largo un metro e con una staccionata sulla destra. Siamo così giunti al punto 13.
PUNTO 13
Arrivati sulla strada sterrata ci dirigiamo a sinistra verso la bacheca che illustra l’ambiente dei boschi umidi. Alzando lo sguardo scorgiamo tra la vegetazione un antico rudere: si tratta della Cascina Ospedaletto, a circa 300 metri s.l.m.. Costruita interamente in pietra non lavorata, la cascina si trova ora in stato di abbandono. Ha forma ad elle con un corpo principale a due piani ad uso abitativo e un altro edificio adibito a stalla e fienile. Gli edifici sono disposti in modo tale da sfruttare al massimo il calore del sole, particolarmente importante considerata l’elevata umidità dell’ambiente. Il nome le deriva dall’antica funzione di lazzaretto svolta durante la peste del Seicento.
Qui troviamo una delle ultime zone caratterizzate dal bosco umido rimaste nel Parco. L’habitat dei boschi umidi di ontano nero e olmo è uno dei tre habitat di interesse prioritario, presenti nel Parco, indicati dall’Unione Europea per la conservazione della natura. Si tratta di boschi che vegetano su terreni ricchi d’acqua, ove talvolta si hanno fenomeni di ristagno. Questi luoghi, come la maggior parte delle zone umide, sono stati nel tempo frequentemente bonificati; con lo scavo di fossati, l’uomo ha operato per allontanare le acque e consentire quindi il prosciugamento dei suoli. Sono quindi rari i boschi umidi oggi rimasti, sfuggiti all’azione “razionalizzatrice” dell’uomo. Boschi di questo genere si osservano normalmente nelle aree periodicamente allagate lungo i grandi fiumi della pianura o al piede dei versanti, dove si ferma l’acqua. L’ontano nero è la specie arborea principale di queste formazioni ed è in grado di sopravvivere anche in ambienti sempre inondati. Quando le condizioni ambientali diventano meno limitanti, su suoli meno difficili, umidi ma con minor ristagno, compaiono altre specie e fra esse la più significativa è sicuramente l’olmo. Altri alberi che si possono incontrare in questi boschi sono il pioppo nero, alcuni salici e il ciliegio a grappoli. Anche qui penetra, però, la robinia, specie esotica di origine nord-americana, fortemente infestante. Nel sottobosco vegetano diverse specie arbustive, fra le quali è particolarmente appariscente nel periodo della fioritura e della fruttificazione il viburno o pallon di maggio. Ad esso si accompagna spesso la frangola, soprattutto sul margine del bosco. Ma è soprattutto nello strato erbaceo, meno appariscente, che vegetano le specie più caratteristiche di questo ambiente, quali l’olmaria, il cardo giallastro, i carici e la valeriana a cui spesso si uniscono gli equiseti. Fra le specie animali che frequentano questi boschi, le più importanti sono legate soprattutto alle pozze presenti negli ambienti umidi. E’ il caso della Rana di Lataste, specie endemica della Pianura Padana, cioè che vive esclusivamente qui e nelle sue immediate vicinanze, della Salamandra e del Tritone crestato e, fra gli uccelli, della Cincia bigia e del variopinto Martin pescatore. Purtroppo i boschi umidi nel Parco sono ormai ridotti a pochi lembi di piccole dimensioni; questi ambienti devono quindi essere particolarmente tutelati e devono essere eliminati i fattori di degrado e di alterazione. Lungo i ruscelli, nelle vallecole, vengono realizzati piccoli sbarramenti per rallentare la corsa delle acque ed aumentare l’umidità del terreno. Nei boschi si eseguono tagli per eliminare le specie esotiche e per prevenire schianti che darebbero luogo ad un eccesso di luminosità. Vengono infine eseguiti impianti di ontano nero e di altre specie di questi ambienti, ai margini dei boschi già esistenti e nella radure più ampie, per aumentare la dimensione dell’ecosistema forestale e tramite essa la stabilità.
Torniamo sui nostri passi ed arrivati alla bacheca imbocchiamo, sulla sinistra, la strada sterrata, in direzione est, verso Ca’ del Soldato, segnalata dal cartello del sentiero n. 1. Sulla sinistra ci si presenta il margine del bosco, mentre sulla destra il prato. Quindi la strada si immerge nel bosco facendoci assaporare l’ombra delle chiome. Dopo circa 50 metri sulla sinistra si apre davanti ai nostri occhi uno splendido cono visivo sui prati magri, altro importante Sito di Interesse Comunitario e sulla collina dei cipressi di Monte di Rovagnate. Proseguiamo dritti per 5 minuti fino a vedere, sulla sinistra, un prato con alcune cascine. Siamo arrivati al punto 14.
PUNTO 14
Arriviamo sulla strada asfaltata dove la via Ospedaletto lascia il posto alla via Malnido. L’omonima cascina è un insediamento costituito da un grande e vecchio caseggiato, costruito in pietra non lavorata, al quale si sono affiancati recenti edifici adibiti ad attività agricole. Si racconta che la cascina Malnido servisse, un tempo, a certi cavalieri che sostavano, di sera, all’incrocio di Beolco e venivano qui, di notte, a nascondere e a dividere i frutti delle loro ruberie: era, quindi, una località malfamata.
Continuiamo dritti sulla strada asfaltata in direzione del parcheggio del Centro Parco Ca’ del Soldato che si trova a circa 5 minuti di cammino, sulla sinistra. Siamo circondati da coltivazioni e sulla destra, al margine del prato, c’è una fascia di vegetazione che nasconde il torrente Curone. Se volgiamo lo sguardo verso destra scorgiamo la collina che unisce Montevecchia a Sirtori.
Tutta questa zona, in tempi remoti, era occupata da una fornace romana in cui veniva cotta l’argilla per ottenere i mattoni. Infatti questo territorio è molto ricco di argilla, estratta in diverse cave. Nella scarpata di terra che affianca sulla sinistra la nostra strada, si possono osservare resti di mattoni: si pensa siano gli scarti dell’antica fornace che oggi sono un interessante testimonianza della vita passata di questo territorio.
Loc. Butto, 1 - 23874 Montevecchia (LC) — C.F. 94003030130, P.I. 02236220139
Tel. 039.9930384, PEC certificata@pec.parcocurone.it
Albo pretorio — Contatti — Privacy